
40 GIORNI
Data: 10/09/2013 Argomento: Animali e Ambiente
DI PAUL KINGSNORTH
globalonenessproject.org
"Per poter capire il mondo, a volte bisogna voltargli le spalle”.
Albert Camus
Quando ero piccolo, volevo essere un eremita. In particolare riesco a
ricordare uno strano desiderio latente di vivere per qualche anno da
solo in una pineta. Perché una pineta? Non ne ho idea, in realtà. Non ho
mai veramente passato del tempo in una vera pineta (in contrasto con le
file serrate di pini piantati a strati sulle colline nel Nord
dell’Inghilterra). Ma era lì che volevo essere. Potevo immaginarmi a
dimorare nel cuore oscuro e umido di una pineta. La vita lì, lo sapevo,
sarebbe stata più intensa, più magica, rispetto a casa.
Per un periodo, essendo un bambino romantico e fantasioso, ho
accarezzato l’idea che il mio desiderio di essere circondato da pini
fosse dovuto al fatto che nella mia vita precedente ero stato un
vichingo. Ero affascinato dai vichinghi: i loro dei, le loro rune e la
magia nera della loro fredda cultura dei fiordi. A ripensarci adesso,
credo che sia più probabile che la causa principale fosse un’overdose di
Tolkien, seguito poi da Stephen Donaldson e Ursula Le Guin. C’erano
tanti stregoni nella mia infanzia.
Ma al di là dei vichinghi, c’era qualcos’altro: qualcosa riguardante lo
stare solo. Perché un bambino, poi giovane adolescente, dovrebbe essere
un eremita? Non è il contrario di ciò che gli adolescenti dovrebbero
volere: compagnia, feste, gente? Non penso di aver mai saputo cosa
volessero i teenager, ma non volevo nessuna di quelle cose. Volevo
essere come lo Sparviero di Ursula Le Guin, che vive da solo in una
capanna sulle colline, divinando i misteri del mondo oltre la vista. La
vita di un capraio Gontish mi sembra ancora molto piacevole.
Il mio vecchio contribuì a spingermi in questa direzione, totalmente
contro la sua volontà o intenzione. Ho trascorso gli anni della mia
infanzia facendo trekking tra le lande e le montagne solitarie
dell’Inghilterra e del Galles, seguendo la rotta di sentieri
lunghissimi. Mio padre era tutto l’opposto di un sognatore romantico, ma
era un camminatore ossessionato e non avevo altra scelta che unirmi a
lui. Ne sono contento. Mi è rimasto dentro. Sono ancora un camminatore
ossessionato e amante dei selvaggi spazi aperti, ma credo che forse
anche la solitudine mi è rimasta dentro. Non solitudine in senso
negativo, come spesso viene si usa nella nostra cultura – una cultura in
cui gli individui probabilmente sono più soli che mai e che sembra
compensare quest’isolamento prendendo in giro o sminuendo l’idea di una
solitudine intenzionale.
Non era quel tipo di solitudine. Piuttosto, era quella solitudine di cui
scrivevano John Muir o Edward Abbey quando, uno alla volta, si sono
ritirati in spazi aperti e vuoti, spazi che non erano stati creati o
definiti dall’Uomo. “Le montagne chiamano e io devo andare”, scriveva Muir. “La natura selvaggia non è un lusso”, scrisse Abbey, “ma una necessità dello spirito umano vitale per le nostre vite quanto l’acqua ed il buon pane”.
Ciò che Muir ha scoperto sulle montagne e Abbey nel deserto, io l’ho
trovato nelle lande e nelle colline inglesi, poi in antiche foreste e
vaste pianure in altre parti del mondo. La solitudine selvaggia, che mi
suonava familiare. Un senso di connessione con qualcosa di molto più
grande di me in un posto che non è controllato dal genere umano e non è
alla nostra mercé. Un senso di piccolezza, dalla quale può scaturire la
grandezza.
Sento ancora quella connessione. Condizionato da quelle passeggiate
selvagge, nel silenzio dei monti Cheviot e degli Appennini, forse anche
con Tolkien e Le Guin, ho passato gran parte della mia vita adulta
lottando, a parole e con i fatti, per proteggere la natura che tanto mi
aveva dato da bambino. Non sono mai stato così appassionato a proteggere
il mondo non-umano dagli eccessi sempre più violenti della nostra
civiltà. Ma il movimento ambientalista al quale una volta credevo di
appartenere si è mosso in molte direzioni con le quali mi sento a
disagio. Tecnocratico, serio, troppo impaurito per sfidare le narrazioni
del progresso tecnologico e dello sviluppo economico e troppo pronto ad
accettare una nozione di “sviluppo sostenibile” che spesso suona come i
soliti affari con meno emissioni di carbonio – mi sembra come se il
movimento verde convenzionale abbia cambiato strada.
Tre anni fa, ho cercato di spiegare i miei sentimenti al riguardo in un
lungo saggio intitolato “Confessioni di un Ambientalista in Recupero”.
Il saggio è stato pubblicato nella prima antologia annuale prodotta dal
Dark Mountain Project, una rete di scrittori, artisti e pensatori che
avevo co-fondato un anno prima nel tentativo di creare uno spazio per
nuovi modi di pensare e vedere in un mondo in rapido cambiamento.
Il saggio è stato probabilmente il mio pezzo di scrittura breve più
discusso in vent’anni di vita da scrittore e giornalista. All’epoca, era
anche uno dei più controversi. Uno dei passaggi che è saltato
all’occhio dei lettori, provocando gioia o rabbia, era questo. Stava
alla fine del saggio, come potrete dedurre:
… sapete, mi ritiro. Mi ritiro dalla propaganda e dalle marce, mi
ritiro dalle discussioni, dalle necessità pubblicizzate e da tutte le
false congetture. Mi ritiro dalle parole. Me ne vado. Me ne vado a
camminare.
Me ne vado in pellegrinaggio per trovare quello che ho lasciato nelle
giungle, nei freddi fuochi da campo e nei luoghi della mia testa e del
mio cuore andati alla deriva perché sono stato occupato a frammentare il
mondo per poterlo salvare; occupato credendo di dover essere io a
salvarlo. Me ne vado ad ascoltare il vento e sentire cosa racconta, o se
non racconta niente.
Molti mi hanno scritto – e ancora mi scrivono – dicendomi di quanto gli è
piaciuto il saggio; di come si sia connesso a loro, persino esprimendo a
parole i loro sentimenti. Ma altri sono rimasti, come dire,
indifferenti. Non ero molto preparato alla valanga che queste parole
avrebbero abbattuto su di me dagli attivisti e dai propagandisti, anche
se avrei dovuto esserlo. Mi è stato dato dell’esaurito, del fatalista,
del nichilista che peggiora le cose battendo bandiera bianca. Se volevo
“ritirarmi”, hanno detto, andava bene: potevo andarmene a deprimermi in
un angolo, ma non avevo diritto di dirlo alla gente. Dovevo starmene
zitto e lasciare che gli attivisti continuassero il loro lavoro di
Salvare la Terra.
Ripensandoci ora, posso capire il loro punto di vista. Se fossi ancora
coinvolto nello stato di propaganda, forse proverei lo stesso se qualcun
altro che avesse smesso me lo dicesse facendomi perdere tempo. Tuttavia
c’è qualcosa che mi ha tormentato. Quello che io intendevo, quando
parlavo di ritirarmi, non era andarmene lontano dall’impegno con il
mondo. Per me, infatti, era invece l’opposto. Ho rimuginato su questa
cosa per un po’ e ci sono tornato l'anno scorso con una sorta di sequel
del mio primo saggio, che ho chiamato “Ecologia Nera”. È stata un’altra
ricerca sulle sembianze di un mondo post-ambientalista, su ciò che per
me sembra ancora avere un senso, personalmente, in un contesto nel quale
non funziona più nessuna delle risposte a cui avevo creduto.
Alla fine del saggio, apparso nella terza antologia della Dark Mountain,
ho esposto cinque modalità d’azione che mi sembrano appropriate in un
mondo in cui il cambiamento climatico, il sovrappopolamento, il collasso
economico e l’estinzione di massa non fossero problemi da prevenire in
futuro, ma realtà nelle quali già stessimo vivendo. Il primo della lista
era il ritiro, di cui ho scritto:
Ritirarsi non con cinismo, ma con una mente alla ricerca. Ritirarsi
in modo da permettersi di sedere tranquillo e sentire, intuire,
elaborare cosa è giusto per te e cosa puoi fare per la natura. Ritirarsi
perché rifiutarsi di mandare avanti la macchina è una posizione
profondamente morale. Ritirarsi perché non sempre agire è più efficace
di non agire. Ritirarsi per esaminare la tua visione del mondo: la
cosmologia, il paradigma, le congetture, la direzione del viaggio. Tutti
i veri cambiamenti iniziano con il ritiro.
Questa volta forse mi ero spiegato meglio, o forse il mondo è andato
avanti, o entrambe, ma la reazione è stata molto meno furiosa, sebbene a
tratti ancora confusa. Di certo, quelli con una forma mentis politica o
attivista lo vedevano ancora come un’assurda auto-indulgenza. Ma ci
sono state anche altre reazioni, da tipi diversi di persone. Stavolta
hanno capito più persone. Anch'io cominciavo ad arrivare al punto.
Per i primi vent’anni della mia vita da adulto, ho dimenticato la mia
fantasia infantile sull’eremitaggio, sulle pinete e sulla solitudine. Mi
sono buttato in qualsiasi cosa facessi. Ho partecipato a proteste,
occupazioni e incontri, ho lavorato per ONG, ho messo su le mie ONG,
diretto riviste verdi e lavorato sodo per scrivere cose, dai libri agli
articoli di giornale, che speravo sarebbero stati letti da tante
persone, perché pensavo che fosse il modo migliore per cambiare le cose e
perché volevo essere notato.
Crescendo – ora ho 40 anni e ho un bambino – non solo desidero meno
essere notato, ma mi sembra di capire i miei desideri infantili meglio
di quanto abbia mai fatto da quando li ho espressi. E incomincio a
capire i miei strani sogni di bambino sul ritirarsi dal mondo moderno e
andare nel deserto. Qualcosa di cui avevo bisogno e che poi ho ignorato
per tanto tempo, mi aveva parlato. Ora lo sento parlarmi di nuovo.
Di questi tempi, il ritiro fisico è difficile per me: ho una famiglia da
mantenere e troppi impegni dai quali non posso e non voglio scappare.
40 giorni nel deserto non sono un’opzione adesso. Ma al mio quarantesimo
anno, col passare dei mesi riesco a sentir crescere sempre più forte il
bisogno di quel ritiro. Quest’anno ci saranno weekend in cui potrò
stare da solo nelle lande e a novembre parteciperò a un ritiro di
meditazione zen di cinque giorni in un cottage senza riscaldamento sulle
colline del Galles: sarebbe la prima volta che faccio una cosa simile.
Non vedo l’ora. Ma i miei momenti di ritiro possono essere molto più
brevi. A volte vado a correre sui colli del Lake District, vicino ai
quali ho la fortuna di vivere. A volte porto semplicemente a spasso il
cane nei prati verdi e nei campi vicino casa mia e ci sono notti in cui
queste azioni possono essere dei ritiri meditativi.
A volte in passato la gente mi ha chiesto: da cosa stai fuggendo? Non
sembra la domanda giusta da porre. Non sto necessariamente scappando da
nulla; piuttosto, mi sento trascinato verso qualcosa. Non solo quella
vecchia connessione con lo spirito selvaggio del mondo che avevo trovato
una volta e che riesco ancora a trovare a volte nei verdi spazi aperti,
ma anche la ricerca di un posto dove la mia mente può essere
tranquilla, e non c’è nulla nella mia testa. Attivismo, giornalismo e
anche vita familiare: tutto ciò richiede che tu svolga un ruolo, che
prenda posizioni, che rivendichi diritti e tutte quelle cose che a volte
ti urlano contro, ti usano, ti fossilizzano. Gli alberi vecchi e rigidi
sono quelli che vengono giù quando picchia la tempesta; sono gli
alberelli flessibili a sopravvivere. Tutti i grandi artisti, ha detto una volta Bob Dylan, devono trovarsi in un perenne stato di divenire.
Mi piace questa frase. Il divenire non si ottiene nella vita di tutti i
giorni, e non solo lì. Il divenire ha bisogno del ritiro. Qualcosa va
cercato e trovato.
C’è qualcosa là fuori, al di là della razionalità, al di là degli
impegni quotidiani, al di là delle città nelle valli e delle città nella
nostra testa, di cui abbiamo bisogno e ne abbiamo avuto per molto più
tempo di quanto potremmo ammettere. Prima dell’avvento della modernità,
infatti, ogni codice spirituale, ogni religione, ogni cultura indigena,
ogni società ha sperimentato un atto di ritiro dagli eccessi e dalle
escrescenze del mondo per un bisogno spirituale. Le vite dei padri
cristiani del deserti, i khalwa dei sufi, il ritiro oscuro dei taoisti,
gli esercizi di sant’Ignazio: giorni, settimane, mesi di ritiro erano, e
sono ancora, centrali per le religioni principali. Il ritiro nel
deserto o nella foresta e il ritorno con la saggezza al villaggio o alla
città corre come un ruscello d’argento attraverso le nostre fiabe e i
nostri racconti popolari, i nostri miti e leggende. C’è una ragione per
ogni storia.
A volte hai bisogno di andare e a volte hai bisogno di stare via per un
po’. Il mondo che abbiamo creato è terrificante nella sua complessità e
nel suo potere e la sua capacità di distruggere il piccolo, prezioso,
incommensurabile e significativo che c’è dentro te e intorno a te. Forse
per un attivista politico sedere lungo un torrente in una foresta può
sembrare auto-indulgenza di fronte all’estinzione di massa e al
cambiamento climatico, ma è il contrario. Se non sai perché quel
torrente è importante, non hai i mezzi per proteggerlo. Se hai
dimenticato come ascoltarlo, potresti finire sul lato sbagliato, come
molti prima di te.
Se non esci a cercare, se non ti ritiri, se non ti lanci nella natura
selvaggia senza niente che ti porti, non capirai mai cos’hai bisogno di
perdere e cos’hai bisogno di ottenere. Non cambierai mai. E non se non
cambi mai, neanche tutto il resto lo farà.
Paul Kingsnorth
Fonte: www.globalonenessproject.org
Link: http://www.globalonenessproject.org/library/articles/forty-days
fine agosto 2013
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ROBERTA PAPALEO
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